Aveva le lacrime agli occhi quando mi ha detto “vorrei saper insegnare come fai tu, ma ho troppa paura”. Non sapevo cosa dire, l'ho abbracciata e ho mormorato qualcosa che probabilmente non ha mitigato la sua preoccupazione. Vorrei provare a risponderle adesso.
Nel lungo viaggio che mi portava in Italia, dove ero stata invitata per condividere le mie idee sull’insegnamento, anche io ho versato molte lacrime. So molto bene come ci si sente a essere sopraffatti dall’enormità del nostro compito e dall’impossibilità di fare sempre quello che è necessario per ogni studente delle nostre classi. Anche io ho una paura terribile di non essere all’altezza.
Ma quando faccio un salto verso l’ignoto, ogni volta che tento di fare qualcosa di nuovo in classe, mi aggrappo alla profonda angoscia che provo al pensiero del disagio che troppe volte i miei studenti vivono a scuola, e la mia continua irritazione per questo spreco della loro creatività.
Avete notato quante notizie, negli ultimi tempi, di nuove scoperte o invenzioni realizzate da adolescenti? Quante altre ce ne potrebbero essere se smettessimo d’ingozzarli di noia e liberassimo i loro cervelli, permettendo loro di affrontare con uno sguardo nuovo i difficili problemi del nostro tempo?
Mi domando quanti insegnanti, dopo aver ascoltato l’appello nel quale Ken Robinson ci invitava a stimolare la creatività nelle scuole, facciano un salto verso pratiche d’insegnamento innovative. Dal febbraio 2006 il suo discorso è stato visto più di 36 milioni di volte ed è stato tradotto in 59 lingue, ma sarei curiosa di capire l’impatto che ha avuto sull’elemento centrale dell’insegnamento: il rapporto tra insegnanti e studenti.
È qui che si trova in realtà la “prima linea” dell’innovazione: lo spazio tra uno studente e un insegnante. Qui trovo la motivazione per continuare a cercare di cambiare. In questo spazio emerge la domanda che ogni studente mi rivolge: ti importa davvero?
Non importa che tu sia un insegnante severo che carica di compiti o uno più indulgente, un carismatico alla John Keating (l’insegnante del film L’attimo fuggente) o un esigente alla Jaime Escalante (l’insegnante del film La forza della volontà), in un’aula ci si può prendere cura degli allievi in molti modi. E, fortunatamente, gli studenti non sono schizzinosi quando si tratta di ricevere cure, ma accettano tutto quello che viene loro offerto. Non hanno veramente bisogno di tutti quegli strumenti tecnologici che vengono pubblicizzati durante i corsi d’aggiornamento professionale. Può darsi che apprezzino le novità ma, quando queste svaniscono, torneranno a chiedersi se tu, il loro insegnante, tieni davvero a loro.
“Cura” è una di quelle parole che possono essere interpretate in molti modi, ma quello che intendo io è un processo non privo di ostacoli.
Prendersi cura è un atto concreto. Anche se oggi non posso cambiare tutto il sistema, ogni giorno posso fare in modo che i miei studenti, nella mia classe, si sentano il più possibile a loro agio, permettendogli di muoversi, di mangiare, di fare delle pause. Posso decidere di essere consapevole di ciò di cui hanno bisogno in quanto essere umani, e non contenitori da riempire e mettere alla prova.
Prendersi cura è un compito impegnativo. Mi impone di mettermi nei panni di qualcun altro, di essere comprensiva ed empatica; di vedere l’altro, il mio studente, come vorrei essere vista io. Anche quando, e anzi soprattutto quando, quello studente non è così disponibile.
Gli studenti difficili sono stati i miei più straordinari insegnanti, perché i conflitti avuti con loro hanno stimolato le mie riflessioni sul mio essere insegnante.
Queste riflessioni sono necessarie, perché è in quel momento che comincia il cambiamento. Dall’interno.
Pertanto, se vogliamo cambiare i sistemi d’istruzione, è sì importante che ci sia un sostegno politico ed economico al cambiamento, che ci sia un sostegno sociale all’innovazione, e che agli insegnanti sia dato abbastanza tempo per esplorare nuove idee. Ma la cosa più importante di tutte è che ciascun insegnante trovi il coraggio necessario a superare la propria paura di cambiare, ogni giorno, in classe.
Perché il cambiamento richiede coraggio. Quel tipo di coraggio di cui parla Brene Brown in un’altra famosa conferenza. Quel coraggio che impone alla volontà di essere vulnerabile, di correre il rischio di essere ferita. Quel tipo di coraggio che viene lubrificato dalle lacrime.
Cara collega, quando sarai pronta a spiccare quel salto coraggioso, sarò lì a tenerti la mano. Salteremo insieme.
di Lizanne Foster, 27 dicembre 2015 - articolo originale: "Take the leap"